Di
gruppi che vanno e vengono è piena la storia del rock, ma di gruppi che restano
non ce n’è tanti, a ben vedere. Perché, in sostanza, per restare bisogna
dire o aver detto qualcosa di significativo in termini di successo o di
rivoluzione di schemi. Dei quattro album pubblicati, i Feelies hanno venduto
poche migliaia di copie, e dunque non restano per motivi commerciali. Quanto
al clamore ottenuto presso la critica coeva grazie all’istintiva capacità
di configurare un nuovo linguaggio espressivo, il quintetto di Haledon ha già
invece posto la sua bella stella dorata sul marciapiede del rock’n’roll.
Rock’n’roll in senso vocazionale, naturalmente, giacché Million e Mercer
mai diedero l’impressione di voler lavorare con le dodici battute velocizzate e con tutti gli altri
stereotipi del genere, lasciandosi condizionare piuttosto dal frenetico
rutilare underground dei Velvet, dal minimalismo dei primi Modern Lovers,
dalle schizofrenie dei Talking Heads. Esordirono poco più che bambini con un
album che oggi trovate in uno smagliante vinile bianco e una copertina con
quattro facce da nerd. Non immaginereste mai che dentro quei solchi ci sia il
piccolo genio della piccola chimica risultante dall’intersezione dei folli
ritmi di Anton Fier (poi con Lounge Lizards e Golden Palominos) e Keith De
Nunzio con le chitarre spiritate di Bill Million e Glenn Mercer, le menti di
questo straordinario progetto chiamato Feelies. Un progetto seminale,
detto senza il rischio di abusare del termine. Tracce dei Feelies sono
riscontrabili in decine e decine di gruppi anglo-americani degli anni novanta,
probabilmente anche in molti di quelli non ancora formati, quelli che verranno
in futuro. Se entrate in una sala prove con il vostro nuovo gruppo e quel che
vi viene non è un legnoso tempo in quattro quarti e non è il rassicurante
incedere del mainstream e non è la bella forma cantata del pop da classifica
e non è il virtuosismo chitarristico, sappiate che i Feelies sono lì da
qualche parte, in un angolo nascosto ma non invisibile. Crazy
Rhythms, uscito vent’anni fa per la Stiff (il vinile di cui s’è detto
è invece opera postuma della tedesca Line), pur se acerbo e impulsivo come può
esserlo il disco d’esordio di quattro giovanissimi circa-intellettuali
circa-newyorkesi, rappresenta ancora oggi un folgorante esempio di
sovvertimento di schemi, in quanto pospone l’impatto ritmico-melodico alla
ricerca di uno spleen originale e di non facilissima lettura. Un’opera
fisica e cerebrale insieme, centrata com’è sul cantato proto-slacker di
Million e Mercer e su una lettura suburbana del rock’n’roll segnato dal
folk e dall’esatto contrario dell’aggressività scenica del punk. Prendete
i Velvet, scremateli di tutto l’armamentario art,
portateli fuori dall’ambientazione noir dei garage d’avanguardia e
disponeteli su un terreno di confine tra il cemento periferico e un prato
fiorito: avrete, più o meno, i Feelies. L’accento bucolico dei quali verrà
reso ancora più marcato nel successivo The
Good Earth, disco che segna l'assestamento della line-up intorno a Million
e Mercer, con Dave Weckerman alle percussioni, Brenda Sauter al basso e Stan
Demeski alla batteria. Co-prodotto da Peter Buck, The
Good Earth fece sperare in una nuova possibilità per il quintetto, ma così
non fu. Alcuni brani erano quanto di meglio l’alternative rock americano di
metà anni ottanta potesse offrire, ma l’aspetto anonimo dei componenti il
gruppo, la loro ritrosia ad esibirsi in pubblico, la testarda rinuncia a
qualsiasi compromesso commerciale lo tennero ai margini del mercato che conta.
Nemmeno il successivo Only Life, un
disco spaventosamente maturo, bello sotto ogni profilo, il gradino più alto
raggiunto dai Feelies, riscosse un successo tale da confortare le lodi
espresse dai più avveduti critici contemporanei. Così quando uscì Time
For A Witness, nel ’91, sembrò chiaro che il paniere discografico della
band non avrebbe superato le quattro unità. Benché anche Witness
contenesse canzoni di eccelso livello, infatti, si avvertì subito la
sensazione che il gruppo stesse tornando pericolosamente sui propri passi.
Sembrò che Million e Mercer non avessero più energie per avanzare.
Guardando con meraviglia allo splendido successo odierno degli Yo La Tengo,
originariamente affini al chitarrismo nervoso e minimale dei Feelies, adesso
non resta che constatare quanto poco coraggio abbiano avuto al tempo Million e
Mercer, i quali piuttosto che virare in una forma più attuale e aggiornata
delle proprie geniali intuizioni, altro non seppero fare che sparpagliarsi.
Mentre i R.E.M., a loro debitori in più modi, raccoglievano finalmente i
frutti dell’insistente lavoro fatto da indipendenti, e gli Yo La Tengo
prendevano qualche rischio nel tentativo di ricostruirsi un futuro credibile,
i Feelies cessarono d’esistere. Bill Million lasciò il mondo della musica
per un lavoro normale; Glenn Mercer
e Dave Weckerman provarono a restaurare l’antico feeling con i Wake Ooloo,
troppo simil-Feelies per esser veri (tre album ultra-indipendenti
all’attivo), mentre ora pare siano pronti a tornare con i Sunburst, insieme
al vecchio compagno Stan Demeski, che nel frattempo ha collezionato tre album
con i Luna e qualche sporadica partecipazione in dischi altrui; Brenda Sauter,
infine, dopo aver fatto quattro album con gli Speed The Plough (progetto che
vedeva coinvolti a vario titolo anche gli stessi Million e Demeski), formò i
Wild Carnation insieme a suo marito, Richard Barnes. L’eredità resta,
dunque, ma il presente è sparso.